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Su Franco Coggiola

FrancoCoggiolaLodiamo ora uomini famosi, dice un versetto della Bibbia. Come gli eroi del libro che James Agee intitolò con queste parole, Franco Coggiola non era famoso ma avrebbe dovuto esserlo, perché una parte importante della cultura antagonista della sinistra e della cultura di resistenza e di lotta delle culture non egemoni è passata attraverso le sua mani e la sua passione.
Senza che lui si aspettasse niente in cambio – faceva solo quello che gli sembrava tanto giusto e tanto bello da essere inevitabile. In una delle tante nottate fatte insieme accanto ai precari Revox dell’Istituto de Martino, montando più o meno letteralmente con forbici e colla uno di quei Dischi del Sole che sono patrimonio prezioso di tanti di noi (e sui quali il suo nome raramente figura col rilievo che aveva il suo lavoro), Franco Coggiola mi aveva raccontato una sua fantasia. Da vecchio, diceva, mi voglio andare a nascondere in qualche valle del Cuneese e stare lì ad aspettare che mi scopra un etnomusicologo – per poi sconvolgergli tutte le categorie e i riferimenti cantandogli tutte le canzoni popolari che conosco. Lui le sapeva davvero tutte (se le sappiamo noi è spesso merito suo), da quelle piemontesi della sua concittadina Teresa Viarengo a quelle dell’Italia centrale e meridionale conservate nell’archivio dell’Istituto, fino a quelle americane che mi ero portato appresso io.

Aveva un contatto diretto e materiale con la cultura popolare di mezzo mondo, e al tempo stesso era un valligiano piemontese assolutamente credibile e perfetto, silenzioso, ostinato e incrollabile: una figura coltissima, locale e cosmopolita, senza confini e con solide radici. Forse sarebbe stato imbarazzato se lo avessimo chiamato intellettuale, ma lo era in modo originale e tutto suo, capace di mettere insieme diversità di ogni sorta e al tempo stesso preservare un’identità gelosa. Ma in questa fantasia mi colpiva anche la sua idea di nascondersi per svelarsi: celare il suo tesoro di conoscenze dentro una valle montana e aspettare qualcuno che avesse almeno la voglia di ascoltarlo e sorprendersene. Essere oscuro, sì; ma non inesistente, e tanto meno insignificante; fare della propria oscurità una bandiera, coltivarla e dichiararne l’assurdo; rifiutare di esibire il proprio sapere, ma suggerire che se altri non lo vedevano e non lo usavano la colpa, e la perdita, non era sua. Che è quello che potremmo dire non solo di lui, ma di tutta quella cultura popolare e orale su cui ha lavorato tutta la vita.
Franco Coggiola ha fatto così per tutto il tempo che l’ho conosciuto. Aveva un talento vocale che a me sembrava straordinario, arricchito dal rispetto profondo e dalla conoscenza ravvicinata con il repertorio popolare, le ballate epico-liriche del Nigra e le canzoni del primo movimento operaio torinese. Eppure, anche se lavorava ad un’etichetta discografica, la sua voce nei Dischi del Sole c’è pochissimo – letteralmente, solo quando sembrava che non se ne potesse fare a meno, quando c’era bisogno di qualcuno che riempisse un buco. E sui palcoscenici del folk revival praticamente non c’è mai salito. Ma né l’uno né gli altri esisterebbero senza di lui.
Ecco, io credo che noi abbiamo un grande bisogno di persone così, senza ombre di narcisismo; un grande bisogno di intelligenze e sensibilità che pensano se stesse interamente dentro un’opera collettiva. Forse in realtà negli arcipelaghi della militanza e del volontariato ne abbiamo e ne abbiamo avute molte di più di quanto non siamo capaci di riconoscere. Tutti i Franco Coggiola del nostro tempo sono gli “uomini famosi” che non si aspettano lodi – anche perché lodi adeguate non esistono.

FrancoCoggiolaGeniaAzzaliL’opera collettiva d’amore a cui Franco Coggiola ha dedicato la vita è un archivio, il primo e più grande archivio sonoro delle culture non egemoni in Italia, uno dei maggiori d’Europa. Non era solo un deposito di documenti; era la matrice e l’anima di una gamma variata di iniziative e di progetti, la “placenta” (fu Giovanna Marini a definirla così) di una vita culturale di opposizione. Nei momenti difficili quando per molte componenti dei movimenti antagonisti dire memoria era come dire una parolaccia, quando la musica popolare era prima venduta come una moda e poi dimenticata come un anacronismo, Franco Coggiola ha continuato a lavorarci come se niente fosse – quasi da solo, praticamente senza stipendio, senza nessuna certezza del futuro, snobbato da istituzioni pronte a finanziare qualunque moda ma indifferenti di fronte alla storia – senza lasciarsi turbare da chi, sbagliando, gli diceva che era inattuale e fuori del tempo.

Era silenzioso e indistruttibile come la memoria – come la memoria dei documenti che raccoglieva, salvava, e rimetteva in circolo; e come la memoria vivente, di cui lui stesso era portatore, di tutta la storia cresciuta attorno a Gianni Bosio, al Nuovo Canzoniere Italiano, ai Dischi del Sole, all’Istituto de Martino dagli anni ‘60 in poi.
Sul Manifesto la sua faccia è apparsa un anno fa, naturalmente in mezzo a tante altre: nella foto di gruppo dei compagni della Lega di Cultura di Piadena in sostegno all’azionariato del giornale. Era arrivato trafelato da Sesto Fiorentino, dove l’Istituto de Martino aveva trovato sede; aveva finito di scaricare le casse del trasloco dell’Istituto, ed era felice di avere trovato una nuova casa per l’opera della sua vita. La prima volta che mi ricordo di lui, vendeva i Dischi del Sole dietro un banchetto alla festa dell’Unità di Firenze nel 1970; l’ultima, era intento allo stesso umile e indispensabile lavoro, alla festa nazionale di Rifondazione. E, come allora, si era ricaricato tutto in macchina per rifarsi il viaggio di notte fino a casa. Adesso, nessun etnomusicologo troverà Franco Coggiola ad aspettarlo in agguato in una valle del Cuneese per confondergli idee e confini. Come Gianni Bosio, lo abbiamo perduto prima e troppo presto. Ricordarlo non è solo un gesto di rispetto verso una persona che è stata necessaria; è anche un modo di continuare il suo lavoro:

far crescere la memoria per restare vivi.

 

Alessandro Portelli